Cinema, fotografia e comunicazione sociale

“Il biglietto non lo trova qui, deve andare in via Amendola, qui a fianco” (questo alla biglietteria del Reposi a Torino durante il Torino Film Festival). Mi affretto dunque allo sgabuzzino dove sbigliettano in via Amendola. “Mi spiace, per il film che vuole vedere è chiusa la vendita, chiude sempre dieci minuti prima”. “Ma c’erano duecentottanta posti liberi” – protesto debolmente. Niente da fare. Già, servono per la rush-line, ovvero mantenere posti liberi per ultimi arrivati che devono trovare posto assolutamente, come per esempio i giornalisti. Peccato che le sale siano piene a metà per ben che vada. Per contro, se hai il pass, anche se sei in orario devi aspettare fino a cinque minuti prima della proiezione. Mah. In ogni caso meno male che ci sono i Festival, dove vedi cose che non vedrai mai più da nessuna altra parte. Vale specialmente per il cinema. Sono migliaia i film e i video che, una volta prodotti, non vedranno mai le sale di proiezione. I Festival sono una maniera per accedere a parte di questa produzione sterminata e, spesso, estremamente interessante. Talvolta si trovano delle chicche, altre volte delle vere coltellate. In particolare film e documentari a tema sociale hanno nei Festival il loro palcoscenico naturale. Ci sono registi che si sono specializzati in questa direzione e hanno raggiunto anche una grande notorietà. Il cinema ha un grande seguito e alcune tematiche difficili vi sono trattate con grande maestria. Lo stesso si potrebbe dire della fotografia e anche qui ci sono grandi maestri della fotografia sociale i quali però hanno molte più difficoltà a proporre il loro materiale. Sebbene cinema e fotografia siano storicamente, tecnicamente e artisticamente legati sono due metodi di comunicazione sostanzialmente diversi, anche se possono intrecciarsi reciprocamente. La mia sensazione però è che la fotografia, per lo meno in questo periodo storico, abbia difficoltà a comunicare certi contenuti, forse per limitazioni tecniche intrinseche nel mezzo. Un’immagine ha bisogno di un supporto testuale e nel cinema questo avviene naturalmente, insieme al supporto musicale e alla descrizione del movimento. Tali caratteristiche, che la fotografia non ha di suo, anche se in postproduzione può essere utilizzata in audiovisivi, forse sono fondamentali per raccontare storie captando l’attenzione del pubblico facendolo divertire. Certi temi, soprattutto legati a disagi sociali di diversa natura, sono comunque difficili da trattare e solo uno staff di grandi artisti può realizzare qualcosa che sia in grado di accompagnare il pubblico in grasse risate e in riflessioni molto profonde. Tra altre cose interessanti che ho visto proprio al Torino Film Festival ce n’è una in particolare che ho trovato ben più che interessante sotto questo punto di vista. Si tratta di “Era Legale” del regista e sceneggiatore napoletano Enrico Caria. È presentato come un film documentario plausibile e credibile, anche se la storia è inventata. Racconta di un personaggio talmente improbabile da sembrare vero, Nicolino Amore (l’attore Patrizio Rispo), che, con un curriculum e una storia incredibili, riesce comunque a diventare sindaco di Napoli e a fare una piccola-grande rivoluzione sociale semplicemente usando onestà e buon senso. Ne scaturiscono situazioni paradossali e comiche che portano però a riflettere molto profondamente e lasciano il pubblico, infine, con un messaggio estremamente positivo: si può fare. O forse “si potrebbe fare se….”.

Il film/finto documentario, ricco di ironia e così ben realizzato e coinvolgente che dispiace quando volge al termine, affronta diverse problematiche ecologiche e sociali di Napoli (ma di molte altre città in tutto il mondo) come la droga, la corruzione, la malavita organizzata, i rifiuti tossici e non, la microdelinquenza, lo sfruttamento.

Per affrontare una serie di temi del genere un fotografo bravissimo (anche con uno staff o un collettivo) dovrebbe fare i salti mortali, ben sapendo che il messaggio sarebbe comunque parziale e, con ogni probabilità, mancherebbe di alcuni fattori importanti, come la comicità per esempio. È difficilissimo usare la fotografia a fini umoristici, possibile, ma difficile. La fotografia ha forse più inclinazione alla drammatizzazione e all’emozione. Ovviamente si tratta di sistemi di comunicazione così diversi che non possono certo essere paragonati, la mia è solo una riflessione. Ma nel caso qualcuno (come per esempio io stesso) sia interessato a fare della documentazione sociale con la fotografia potrebbe seriamente prendere coscienza del fatto che la fotografia da sola può arrivare a toccare certe corde e non altre. Viceversa per quel che riguarda il cinema o la letteratura. Probabilmente la comunicazione e la denuncia sociale potrebbero essere una sorta di disciplina multimediale (come per esempio nello sport il triathlon), dove uno staff con diverse competenze affronta i temi da diversi punti di vista, con differenti sistemi di comunicazione, ma con l’intento di produrre arte, integrandosi a vicenda.

In ogni caso il magistrale “Era Legale” dovrebbe approdare nelle sale da Gennaio 2012 e vale la pena di vederlo in primo luogo perché è molto divertente, ma anche perché è un’opera d’arte che assolve il suo compito più profondo: quello di far riflettere profondamente pur appagando sul piano etico ed estetico.

1 thoughts on “Cinema, fotografia e comunicazione sociale

  1. Molto bello, Livio. Non sono del tutto d’accordo sui limiti della fotografia che al contrario, rispetto allo svolgersi di una narrazione filmica, racconta quel che l’apertura mentale di chi l’osserva riesce a percepire (anche grazie, beninteso, all’abilità di chi l’immagine l’ha ritratta). In altre parole ho trovato immagini che in uno scatto raccontano tuttta una guerra mentre raramente ho trovato film capaci di tanto con poche efficaci inquadrature. Non vedo l’ora di seguire il tuo suggerimento circa “Era legale”

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